Gli effetti del lockdown sulle nostre tavole
L’emergenza sanitaria legata al diffondersi del Covid-19 sta mostrando, forse per la prima volta per molti di noi, il rischio di vivere in una situazione di insicurezza alimentare. Le immagini di lunghe code ai supermercati e di interi scaffali vuoti mostrano come le componenti della filiera alimentare e dell’epidemia interagiscano e producano impatti a livello nazionale, regionale e globale. Si tratta di una catena molto complessa, che coinvolge numerosi attori e fasi dalla produzione alla trasformazione, dalla logistica alla distribuzione, dalla ristorazione al consumo, dalla redistribuzione fino allo smaltimento.
La globalizzazione del cibo rende tutti i Paesi vulnerabili a shock della filiera alimentare. Da un lato, in aree di libero commercio come l’Ue, la minaccia di chiusura delle frontiere mette non solo in pericolo valori e diritti fondamentali, ma anche l’equilibrio socio-economico di Paesi esportatori di derrate alimentari nel nord e sud globale. Dall’altro lato, le restrizioni commerciali per motivi sanitari possono bloccare intere filiere alimentari, provocando problemi di carenza di cibo per Paesi che sono altamente dipendenti dalle importazioni. Pensiamo ad esempio ai grandi porti e centri logistici internazionali come quello di Seattle, dove nelle scorse settimane il blocco delle operazioni ha impedito ad alcune navi container provenienti dalla Cina, ma non solo, di sbarcare prodotti agro-alimentari. Tali blocchi potrebbero essere stati causati non solo dal diffondersi del virus tra gli operatori portuali ma anche dai controlli sanitari che garantiscono gli standard di Sicurezza Alimentare dei prodotti da importare.
La pandemia di Covid-19 rischia di avere ripercussioni importanti anche per l’intera filiera alimentare italiana. Secondo i dati di Federalimentare l’autosufficienza, ovvero la possibilità di produrre con sole materie prime nazionali e senza far ricorso alle importazioni, è una prerogativa di pochi settori in Italia. Il vino, il riso e le acque minerali solo completamente autosufficienti, mentre parallelamente sono del tutto dipendenti dall’estero il caffè, il cioccolato (al 90%), il comparto delle conserve ittiche (95%). Hanno un buon grado di autosufficienza il lattiero caseario (importa appena il 14%) e l’ortofrutta trasformata (16%).
La forte dipendenza dall’estero per le materie prime resta una caratteristica di un ampio e rilevante gruppo di prodotti chiave della tavola degli italiani. Si tratta innanzitutto dei due settori fortemente interconnessi della pasta e del comparto molitorio (farine, semole ecc.) che rispettivamente importano il 45% e il 40% delle materie prime, come anche altri due segmenti fortemente legati come quello delle carni preparate (importa il 40% delle materie prime) e il settore zootecnico (nel quale solo la filiera avicola è del tutto autosufficiente) che è obbligato a ricercare all’estero ben il 65% dei prodotti per l’alimentazione animale. Senza contare il caso dell’olio d’oliva che importa dall’estero il 60% delle materie prime necessarie anche per esportare, visto che la produzione nazionale da sola non copre neanche i consumi interni.
In tempi di lockdown da coronavirus, da più parti sono riecheggiati gli inviti a “consumare italiano” o comunque a privilegiare sugli scaffali della grande distribuzione i prodotti alimentari Made in Italy. Un invito che viene di tanto in tanto rinnovato, che di certo sarà fondamentale quando si uscirà dalla quarantena e occorrerà sostenere e rilanciare l’economia nazionale. Ma questo da solo non sarà sufficiente.
L’emergenza attuale impone una serie di riflessioni su come proteggere i sistemi alimentari nazionali da crisi globali. Occorre costruire sistemi alimentari sostenibili e resilienti. Ciò significa non solo ripensare gli attuali modelli di distribuzione, logistica e consumo, ma anche investire in politiche che favoriscano l’imprenditoria agricola giovanile. Infine, occorre evitare a tutti i costi che la paura del contagio favorisca l’emergere di nuove forme di nazionalismo o xenofobia economica con conseguenze drammatiche per il libero commercio e le economie di numerosi Stati.